Sommario
Grazie alla sua collocazione nel manoscritto Chigiano L.VIII.305, il sonetto “Pelle [chiabel] di Di’, non ci arvai” viene tradizionalmente attribuito a Cecco Angiolieri. Tenendo però conto di altre fonti manoscritte, sarebbe possibile attribuirlo invece a Lapo Gianni, tanto più che quelle fonti permetterebbero di offrirne una lezione ancora più accurata. La lirica presenta una conversazione di mercanti riecheggiante dei passi del De vulgari eloquentia di Dante. Queste riminiscenze del trattato dantesco sembrerebbero indicare l’intenzione del poeta di parodiare la situazione linguistico-culturale dei comuni italiani trecenteschi.
Après une brève présentation des travaux publiés depuis une dizaine d’années relatifs à la reprise de modèles métriques entre troubadours et trobadores, l’article discute des différentes propositions de Betti (2003). Cette étude nous donne notamment l’occasion de faire quelques suggestions sur la forme curieuse de la dança-balada de Cerveri et les raisons qui ont pu motiver cette rubrique énigmatique, d’apporter des éclaircissements sur le cas de Peirol 366,34 et de ses contrafacta, et d’établir une influence directe de la chanson politique O genete d’Alfonso X sur Lop’ Anaia de Fernan Soarez de Quinhones.
Il volgare lucchese del testamento di Done Alluminati (m. 1348) si distingue notevolmente dal pisano antico e ancor più dal pistoiese e dal fiorentino di maggior prestigio. In un’area pressoché isolata, che comprende il centro di Lucca e le propaggini della Garfagnana, si rilevano toponimi romanzi e longobardi. Il testamento presenta modi di dire, liste di oggetti e aspetti di vita quotidiana di notevole interesse storico e culturale. I tratti autobiografici di Done, infine, permettono di osservare il comportamento di lui e della sua famiglia nelle lotte politiche dei comuni dell’epoca. È insomma un momento particolare della storia di Lucca vissuta in un suo eminente cittadino.
Ripensare fino in fondo il mutamento che l’ingresso della filosofia greco-araba produce in Occidente è possibile soltanto se si penetra nella profondità del lingua e si segue il mutamento che si produce con tradizione teologica cristiana. Dante, all’inizio del secondo trattato del Convivio, propone di sostituire mente a intelletto. Almeno lui farà così. Si tratta di un indizio importante di come si produce un’incomprensione dei processi di trasformazione culturale. Almeno da mezzo secolo il lessico aristotelico sta sostituendo quello cristiano agostiniano e intelletto è la chiave della nuova antropologia filosofica. Ritornare a mente significa ignorare i processi storici. In effetti già nel quarto trattato Dante smentisce se stesso. Comprende che il mutamento linguistico non è a disposizione del singolo. La ricostruzione del piano storico del lessico intellettuale in tutta l’opera dantesca permette di ricostruire il piano del conflitto e del progetto che attraversa le singole opere.
La tradizione manoscritta degli Otia imperialia è molto articolata, segnata da contaminazioni e caratterizzata dall’esistenza di due originali, ciascuno a capo di famiglie di codici. Lo studio tenta di definire i rapporti intercorrenti tra le due copie d’autore, una delle quali pervenuta, e di illuminare i meccanismi di trasmissione dell’opera, segnati da una doppia dinamicità: da un lato il progressivo stabilirsi del testo attraverso la stratigrafia rinvenibile nel suo principale latore, autografo, dall’altro un’elaborazione testuale post-redazionale che sfocia in una diversa versione. Il discorso codicologico si affianca a quello storico imperniato sulla verosimile data di consegna degli Otia all’imperatore Ottone IV di Brunswick cui sono dedicati.
In questo contributo viene analizzato un testo ambiguo e «multiplo» come il Lai de l’Ombre di Jean Renart, puntando ad offrire una più precisa definizione di quest’opera e disvelando una fitta rete di rimandi ed echi (e omaggi incrociati) fra Jean Renart, Chrétien de Troyes e il Galeran de Bretagne di Renaut [de Beaujeu, giusta l’opinione di molti studiosi], che riteniamo contemporaneo, e forse amico, dello stesso Renart. Tutto viene svolto all’ombra di un mito fondamentale per Jean Renart: Tristano e Isotta con, in sottotraccia, la questione della mescheance. Speculare a questo mito è il versante dell’intratestualità, dove sono evidenziati collegamenti tra il Lai de l’Ombre, l’Escoufle e il Guillaume de Dole. Le conclusioni puntano a vedere nel Lai de l’Ombre una fusione tra lai lirico e lai narrativo, nel punto nodale di un’occasione importante: donare la parola alla dama e, in seconda istanza, rispondere (con debito ma amichevole distacco) al problema dell’apparenza proposto da Renaut nel Galeran e definito da quest’ultimo come un’ombre. Così, per Jean Renart, la Fine Amour trionfa sulla mescheance di Tristano e Isotta: questo avviene nel nostro Lai attraverso la forza della risposta amorosa della dama che si attualizza, poi, nel «suono del silenzio» che segue la chanson del troviero.
Si propone una nuova edizione delle “biografie dei trovatori”, capace di soddisfare all’esigenza della ricezione scientifica del testo: tale edizione dovrà avvalersi del “valore aggiunto” offerto dalla forma ipertestuale, l’unica in grado di fare interagire i due livelli dell’edizione “ricostruttiva” e dell’edizione “documentaria”. Ciò non esclude, ovviamente, che il testo critico (insieme ad un apparato semplificato, alle note di carattere esegetico ed alla parafrasi) possa trovare anche una forma editoriale di tipo “tradizionale”.
Le Breviari d’amor catalan est conservé dans six manuscrits. Un septième fut perdu en 1932. Il existe aussi un fragment (z), sous forme d’un seul feuillet, donné en 1941 à la Biblioteca de Catalunya, et un long extrait (X), qui fait partie de la collection du British Library depuis 1846. Les mss. catalans sont solidaires dans ce sens qu’ils excluent le Perilhos tractat d’amor de donas, qui occupe les vv. 27253-34597 de l’original occitan en vers. Un coup du hasard a permis à l’auteur de cet article de découvrir des fragments d’un autre manuscrit, le 3284 de la Bibliothèque de l’Université de Gand. La tâche de cet article est de donner ces fragments et d’essayer de voir quels sont les rapports de ce manuscrit avec les autres témoins de la tradition. Jusqu’ici, aucun manuscrit du Breviari catalan n’a été édité, sauf le ms. P (Madrid, Biblioteca Nacional, Reserva 203) par A. Ferrando i Francès, en 1980.
This chapter is devoted to the exploration of Petrarch’s approach to and technique of ars imitandi applied to the Commedia in three vernacular poems: Triumphus cupidinis, Rerum vulgarium fragmenta 176 and 54. The Triumphi, as frequently noticed by scholars, are the most Dantean work ever written by Petrarch, featuring a complex network of dantismi. In the TC in particular, one may find numerous space-time syntagms (often love-related), deictically echoing precise loci in the Commedia. The sonetto 176 and the madrigal 54 of the Rerum vulgarium fragmenta, albeit never studied in this light, similarly offer the reader an extraordinary mixture of Dantean syntagms, presented in an allegorising fashion and yet again involving time, place, love and natural elements (thus seen as Dantean “surroundings”). Petrarch’s surroundings are nonetheless deprived of any transcendent feature. This “downgrading” of Dantean themes is essential to Petrarch’s ars imitandi in which any transcendent dimension is missing, and may explain the choice of the title: «Petrarch’s love and lovers: “undivine” surroundings in the Triumphus cupidinis and the Rerum Vulgarium Fragmenta».
La storia delle edizioni finora approntate del Guillaume d’Angleterre pone immediatamente in luce quella che costituisce la maggiore difficoltà per chiunque tenti di ricostruirne il testo originario: la realizzazione di un’edizione critica che, di fronte ad una tradizione bipartita, non prescinda quasi completamente da uno dei due manoscritti; soluzione finora pressoché obbligata, date le consistenti divergenze tra le lezioni dei due codici che il Guillaume ci hanno tramandato. Lo studio qui proposto costituisce una tappa preliminare ad una nuova edizione critica del Guillaume d’Angleterre, tramandatoci da due testimoni: il ms. P, Parigi, Biblioteca Nazionale, fr. 375 (cc. 240 vb-247 va), della fine del XIII secolo, con caratteristiche linguistiche piccarde, che presenta un numero maggiore di lezioni filologicamente accettabili, e il ms. C, Cambridge, St. John’s College, B 9 (cc. 55 rb-75 vb), dell’inizio del XIV secolo, con caratteristiche linguistiche del nord-est della Francia, sicuramente più corrotto, ma per certi aspetti più fedele all’originale. Vengono qui discussi alcuni passi controversi di entrambe le versioni, che meritano un’analisi più approfondita, e valutate alcune delle numerose lacune che guastano entrambi i manoscritti. Inoltre, la tesi che le due famiglie, rappresentate rispettivamente da P e da C, costituiscano due rami ben distinti della tradizione potrebbe essere rimessa in discussione alla luce di alcuni guasti che sembrerebbero invece comuni all’intera tradizione del Guillaume.
Questo modesto contributo si propone di mettere alla luce varie specificità che legano i testi di Folgore da San Gimignano e Cenne da la Chitarra. Al di là dell’elaborazione di una corona dei mesi articolata, i due poeti propongono due visioni del mondo opposte. La proposta di Folgore in cui la presenza del locutore-poeta elabora un universo ideale di diletti vari e delicati strettamente legati ai destinatari nobili, viene alterata dalla risposta per contrari ideata da Cenne in cui i destinatari rappresentano i ceti più bassi della società. Questa visione sordida della realtà dove assistiamo a una concentrazione di tutto quello che rende la vita insopportabile comporta, di fronte alla corona folgoriana, una comune concezione del mondo attraverso la figura del locutore-poeta.