Sommario
Il lavoro pone l’attenzione sulla disputa filologica che ha messo di fronte John Fisher, editore nel 1917 della Vie de saint Eustache di Pierre de Beauvais (composta probabilmente tra il 1212 e il 1217), e Holger Petersen, suo severo recensore. Analizzando le divergenze interpretative relative all’erroneità di alcune lezioni – che hanno portato i due studiosi a individuare parentele parecchio differenti tra i quattro codici che conservano l’opera – si è cercato di fare luce sui luoghi testuali particolarmente problematici: sono state così accolte molte delle obiezioni mosse da Petersen all’editore Fisher e si sono individuate alcune prove certe relative all’esistenza di una famiglia di manoscritti non determinata precedentemente. Sulla base dei passi discussi si è anche prospettata la possibilità di esistenza di un archetipo con doppie lezioni, per arrivare infine alla costituzione di un nuovo stemma, dal quale si potrà procedere in vista di una nuova edizione del testo agiografico.
Nuova edizione della tenso tra Dalfi d’Alvergne e Perdigo sul primato della nobiltà di sangue o di spirito proposta nei termini se una dama che vuole rispettabilità debba legarsi a un cavaliere dai modi villani o a un villano di gentil coratge. L’ipotesi interpretativa recupera nella prima tornada il sostantivo femm. chica – col significato spregiativo di ‘buono a nulla’, ‘pappamolla’, ‘mezza calzetta’ – il cavaliere senza merito che costituisce uno dei due poli dell’opzione sottoposta alla dama. La comparazione del testo con altre tensos in cui sia richiesto l’intervento arbitrale di un terzo permette di individuare come luoghi topici del genere il pronunciamento sulla nomina del giudice designato e l’elogio delle sue virtù. L’individuazione di queste costanti risolve l’interpretazione della seconda tornada senza interventi congetturali riferendo i versi a Gaucelm Faidit, il trovatore chiamato in causa da Dalfi e a cui Perdigo chiede un giudizio equanime nonostante la sua non appartenenza alla classe nobiliare. La corrispondenza dei versi di Dalfi con un passo del De Amore di Andrea Cappellano fa acquisire l’hapax semantico del verso 21 de jos, ‘nei discendenti’.
This paper offers a description, iconographical analysis and discussion of the order of chapters in a newly-discovered, fully illustrated bestiary of French origin (1250-1270). The manuscript belongs to the so-called Second Family and the article establishes the proper genealogical place of the manuscript among the other representatives of this group. The majority of the bestiaries in this family are of English origin, so the discovery of a French manuscript helps demonstrate that the bestiary tradition was alive on the continent at this period. The article includes an up-to-date list of other new bestiaries discovered by the author.
L’articolo, che verte sul problema dello studio delle fonti, cerca di definire il cantare «novellistico» come genere posto – almeno per quanto riguarda i materiali narrativi – alla confluenza fra due tradizioni diverse: quella, letteraria e cortese, dei romanzi e dei lais, e quella orale e folklorica delle fiabe. Questa duplice matrice, e lo statuto in un certo senso ibrido che direttamente ne deriva e che fa di questi cantari una forma letteraria al confine fra il dominio della scrittura e quello dell’oralità, vanno innanzitutto riconosciuti (cosa che non avviene affatto), e quindi adeguatamente valutati. E ciò significa, in sostanza, valutati utilizzando, accanto alle tradizionali metodiche della filologia, anche (e contemporaneamente) quelle della fokloristica. L’inserimento all’interno di questa doppia prospettiva di testi come Campriano, Liombruno, Bel Gherardino permette di comprenderli meglio e di dar loro senso e compiutezza, ma suscita anche numerosi problemi, sia teorici che pratici, giacché il dominio della tradizione favolistica non si può accostare con la forma mentis storicistica e lachmanniana che è usualmente propria dei filologi.
Delle due canzoni attribuite a Riccardo Cuor di Leone, quella che ha ricevuto più attenzione da parte della critica è senz’altro la rotrouenge, o sirventes-canso, Ja nus hons pris (RS 1891; BdT 420.2), composta durante la prigionia del re in Germania dopo la Terza Crociata. Questo saggio, che dà per scontato una sola redazione della canzone in francese, sottolinea come non esiste fino ad oggi un’edizione soddisfacente del componimento e propone, sulla scia del lavoro di Lucilla Spetia, di accordare uguale peso in sede di edizione a tutti i manoscritti contenenti il testo. Tale proposta si basa su una nuova, o almeno non generalmente diffusa, lettura della strofa 6, problematica nella tradizione, alla luce degli eventi storici richiamati dal re troviero.
In contrast to codices, rolls have been said to be more ephemeral, economical, and portable. However, the wide range in the properties of rolls and the uses to which they were put in the Middle Ages suggest that none of these characterizations is necessarily true. Many rolls were as noble in content as any codex, and were intended to be as permanent. Since rolls were usually used for writing on only one side, the cost of parchment for recording a given text was twice as much for a roll as for a codex. While one type of obituary roll was carried from one religious house to another, another type, bearing the names of all the deceased monks and benefactors of an abbey, remained perpetually in the house. Focusing on cartularies from France, this article finds thirty-nine in the roll format, which appears to have been used more often in the South than in the North. The explanation proposed is that charters, too, were more often rolls in the South, and that copies of charters, or cartularies, were formatted the same way. An investigation of representative charters from the South finds evidence that they were originally rolled, later folded into packets, and finally displayed flat. The distribution of cartularies as either rolls or codices is determined not by the physical properties of either format, but by regional tradition.
The tensos and partimens presented here form part of a much larger project to provide a critical edition of the corpus of troubadour dialogue-pieces begun some years ago by John Marshall, which failing eyesight obliged him to abandon. He handed over all his papers to Ruth Harvey and Linda Paterson who, with the help of some Italian colleagues, are completing what he had started. The collection will be published in three volumes with the Boydell and Brewer in c. 2008-9. All five pieces edited here involve trobairitz, fictive or otherwise, and have aroused considerable interest in the last few decades. The editions offered here produce texts which differ from these in several respects, as well as making some new proposals about the identity of interlocutors and arbiters and the historical circumstances of the dialogues’ composition.
La lirica RS 1098 è attribuita in modo discordante a Thibaut de Champagne e a Perrin d’Angicourt dai manoscritti francesi che la tramandano, e sino ad oggi non è stato possibile definirne la paternità (Wallensköld non l’ha accolta tra i testi di Thibaut, Steffens l’ha posta tra le inautentiche di Perrin). Tuttavia l’analisi metrico-formale e contenutistica consente di ascriverla al troviere champenois e di cogliervi l’eco di un dibattito ideologico rilevante fra i trovieri di diverse generazioni, alla luce di una stretta relazione intertestuale tra RS 1098 e due liriche di Perrin (RS 1391 e 1692), relazione che giustifica l’attribuzione discordante.
Ad esaltare la domina alla quale prestano omaggio e di cui tessono le lodi, numerosi poeti medievali – di area occitanica, oitanica, italiana – ne hanno paragonato la bellezza a quella di una pietra preziosa. In area galega, invece – dove di norma il panegirico della dama si affida ad una descriptio molto succinta, limitata a poche espressioni canoniche – l’unico trovatore che, in una cantiga tràdita a suo nome, introduce una comparazione tra l’eccezionale bellezza della «señor» e lo splendore di una gemma – il rubino – è Roi Paez de Ribela. Si formula l’ipotesi che la fonte sia da individuare in una canzone assegnata ad un «Comte de la Marche», probabilmente Tout autresi com li rubiz, di Ugo XII.
Il lavoro è uno studio sugli pseudonimi letterari elaborati dai trovatori per designare dame, mecenati, colleghi trovatori e amici. L’articolo è diviso in due parti: nella prima (si veda RST V) si analizza la struttura grammaticale del senhal , la sua posizione nella struttura strofica del componimento e il suo ruolo sintattico all’interno del periodo con il fine di dimostrare che nella formazione dei senhals agivano delle costanti compositive. Parte integrante dello studio grammaticale è un indice completo dei senhals oggi noti del corpus lirico trobadorico, ordinati secondo le quattro macrostrutture grammaticali individuate (nomi, sintagmi nominali, sintagmi preposizionali comparativi e sintagmi verbali). Nella seconda parte (qui pubblicata), si affronta un’indagine del significato storico-letterario del senhal presso i trovatori e si presenta un bilancio degli studi prodotti sull’identità storica del senhal Bel/Bon Esper di Gaucelm Faidit, scelto come modello-guida per tutto l’articolo.